domenica 25 marzo 2012

L'abitudine (short story)



È stata l’abitudine a fregarti.
Pensare che tutto resti uguale.
Che le cose e le persone non possano mai cambiare. Che restino perennemente uguali a se stesse.

È incredibile come non conosciamo bene nemmeno le cose che vediamo ogni giorno. Come anche i luoghi che frequentiamo da sempre nascondano piccoli misteri che , distratti come siamo, riusciamo sempre a non notare.
Certo, il mistero in questione è un paradosso enorme. Altro che piccolo. Una di quelle cose che, a raccontarle, si vien presi per pazzi. Difatti, mi son guardato bene dal raccontarlo. Anche se , devo ammetterlo, è stato difficile. Per almeno tre giorni sono stato preda di quell' entusiasmo infantile, tipico della scoperta, della novità, che vorrebbe farti gridare al mondo la tua gioia. Raccontarla a chiunque. O, almeno, a qualcuno a cui tieni.
Io avrei voluto raccontarlo a te.

Ma per raccontare qualcosa a qualcuno ci vuole complicità. Fiducia in chi ti sta di fronte. La stessa che ti aveva portato a confessarmi, quasi in lacrime, che tuo padre non se n’era andato dalla città per cercare migliori fortune, ma perché inseguito dagli strozzini che volevano fargli la pelle. O che ti aveva fatto raccontare di quando, perduta nel tuo perduto amore, a 20 anni ti eri tagliata un avambraccio per autolesionismo, dicendo poi a tua madre ed al medico del pronto soccorso che t‘era scappata di mano la forbice. In entrambi i casi ti aspettavi che io girassi le spalle, storcessi la faccia, esprimessi disgusto. Io, invece, ti ho ascoltato. E sono rimasto dov’ero.

Una delle sere in cui tutto è cominciato ad andare male, una di quelle sere in cui il tuo istinto sa qualcosa che tu non hai ancora razionalmente capito, in cui la bocca dello stomaco stringe e non sai perché, ho fatto la scoperta.
Per la prima volta da quando ci conoscevamo abbiamo litigato, per telefono. C’eravamo visti il giorno prima, ma tu, astutamente e codardamente, avevi riportato alla luce una discussione solo a distanza. Perché è  facile tenere le distanze se esistono realmente.
Raramente perdo il controllo, anche se sono adirato. Ma tu hai sempre avuto il talento di farmelo perdere. Sotto tutti i punti di vista. Risultato, grida furibonde al cellulare in mezzo alla strada, mentre rientravo. Esasperazione, pianto, cellulare scaraventato per terra con violenza nel vicolo, dedicato al bistrattato patriota risorgimentale, dietro casa mia.
Sarà stato il freddo gelido, la fortuna, l’indifferenza, o che mi ero appartato nel punto più remoto della strada, nessuno s’è affacciato a bestemmiare i miei antenati.
Il cellulare ha compiuto due rimbalzi andando a finire in un angolo completamente buio del vicolo, fra due lampioni vecchi e poco potenti.
Ho digrignato i denti, compresso nel petto un urlo animale, teso i muscoli allo spasmo e riacquistato a fatica la calma. Mi sono avvicinato al punto dell’impatto con l’intenzione di recuperare ciò che residuava del telefono, sperando vivamente, viste le mie scarse finanze, che funzionasse ancora.
Raccolsi il pezzo di copertura del vano batteria, e mi avvicinai al buio protendendo la mano per recuperare a tentoni il resto del cellulare.
Ma mi bloccai.
A mezz’aria, sudando improvvisamente freddo.
“Non infilare il braccio nel buio!” mi disse l’istinto, lo stesso della bocca dello stomaco.”non farlo…c’è qualcosa che non va…”
Razionalmente pensai che, mentre avevo sentito distintamente il botto del primo contatto del telefono con l’asfalto, non avevo sentito il rumore del secondo rimbalzo. In una strada deserta, riverberatissima, in inverno.
Ma non era solo questo. Poteva esserci dell’immondizia non visibile. O delle foglie secche. Ma qualcosa gridava “pericolo!” dentro di me.
Presi un ciottolo di cemento di medie dimensioni lì vicino. Lo buttai con forza nel buio. Nulla. Cercai qualcosa che potevo tenere in mano ed infilare nel buio. Trovai un ramo di mezzo metro. Lo infilai senza incontrare resistenza. Lo lasciai andare. Nulla.




Nessun rumore. Nessun rimbalzo. Eppure il muro a ridosso della macchia di buio sembrava essere ad un metro circa da me. Ero terrorizzato ed esaltato ad un tempo. Come chi ha un’intuizione ma ancora non è sicuro che sia esatta. Andai a dormire completamente dimentico del mio cellulare perduto.

La mattina dopo ripassai da lì. Dovevo verificare. Vedere con la luce del giorno. Con mio sommo stupore notai che la macchia di buio persisteva. La conformazione dei muri, dei palazzi, degli alberi, di tutto ciò che c’era intorno insomma, faceva si che lì non battesse la luce nemmeno di giorno. M’ero portato dietro un paio di oggetti da prova. Tirai un vecchio pallone. Nulla. Una vecchia carabattola di metallo. Nulla. Rumori, pezzi, reazioni. Nulla di nulla. Dietro di me la gente che abitava nei pressi passava. Le macchine uscivano dai cortili. Ma nessuno sembrava accorgersi di nulla.

La sera stessa avrei voluto parlartene. Trasmetterti il mio entusiasmo, quello che sembravi condividere, vista anche la rarità dei casi in cui si presentava, quando ti parlavo un tempo.
Ma eri palesemente altrove. Non solo con i pensieri. Eri già altrove. Erano finite le recriminazioni, le discussioni, i sogni eccessivi e sdolcinati, perché tu eri semplicemente già da un’altra parte.
E me lo comunicavi. Ed io potevo solo accettarlo. Anzi tu sapevi che, essendo io una brava persona l’avrei accettato, l’avrei capito. Lo dicevi spesso, che sono una brava persona. Lo dicesti anche quella sera.

Furono giorni complicati. Accettare, dopo milioni di discorsi, che a me sembravano prematuri a te la cosa più naturale del mondo, su una vita insieme, che tu non ci fossi più. Ma anche realizzare che dietro casa mia, da chissà quando, c’era il Buio. O il Nulla. Ormai lo chiamavo così, impersonificandolo. Mi chiedevo cosa fosse, e come mai nessuno se ne fosse accorto. Non mi sorprese più di tanto scoprire, invece, una notte tarda, che molti dei desaparecido della mala locale non erano seppelliti nelle montagne circostanti la città, ma erano periodicamente scaricati nell’angolino buio a me noto. E capì perché, in città, al sentire il termine sparizione senza traccia anche il più feroce dei criminali locali sbiancava lievemente.

Tutto è successo l’altro ieri. Sei stata tu a cercarmi. Chiamarmi. Non so se fosse nostalgia, rimorso di coscienza, insicurezza. Nemmeno tu hai mai avuto chiaro cosa ti passasse nella testa. Hai sempre avuto chiaro cosa non ti stava bene di me. Ma non è bastato che cercassi di cambiare. Perché probabilmente non era quello che non andava.
Quindi, hai deciso che dovevamo vederci. Per parlare ancora. Perché non volevi che non facessi più parte della tua vita. Così hai detto. Abbiamo passeggiato nel quartiere. Come facevamo di solito. Non mi sono accorto che fossimo finiti lì. D’altronde c’eravamo seduti sui quei muretti lì intorno altre volte. Stavolta rimanemmo in piedi. E tu ti sei piazzata con le spalle al buio. Continuavi a parlare. Hai parlato per tutto il tempo del passato. Del nostro passato. Dell’amore, del sesso, delle cose assieme. Sembravi nostalgica. Sembravi vicina. Tanto che mi ero quasi pentito dei pensieri cattivi dei giorni precedenti. Degli agguati e della punizione che ti avevo teso nella mia mente. Nei miei strazianti momenti di solitudine. Fino a quando ti sei posizionata in quel punto. Lì hai cambiato espressione. E tono. Lì sembravi un’altra persona. Hai riattaccato la tiritera sulle cose cambiate, sul capitolo finito, sull’affetto che non era più amore. E sulla mia onestà, sulla mia bontà, sul mio essere anche sempre uguale a me stesso. Li ho pensato a tutte le stronzate che mi avevi detto. Ed a cui io avevo finito per credere, nonostante il mio cinismo. L’amore eterno, il matrimonio fra i papaveri, i figli che ci somigliavano, una vita migliore da un’altra parte. Lì devo avere cambiato espressione io. Lì devi aver dubitato per un attimo. Delle cose che avevi detto, delle cose che pensavi, delle cose che non cambiano.
Perché appena ho fatto un passo in avanti, nonostante avessi ancora le mani in tasca, hai fatto una faccia spaventata e sei arretrata di un passo. Uno solo. Ho chiuso gli occhi per un attimo. Ho pensato, in quell' attimo, che mi avrebbero fatto molte domande, che sarebbe stato un periodo difficile. Ma che sarebbe passato.
Poi li ho riaperti.
Nessun rumore.
Nessun segno.
Nulla.









martedì 20 marzo 2012

Fantainedito





Ma sì: togliamo la polvere a queste tavole inedite!    Avevo iniziato a disegnare (e scrivere) una storia di fantascienza senza sapere bene dove sarei andato a finire, poi sono sopraggiunti altri impegni e mi sono reso conto che prima di completare 'sto casino era meglio diventare più bravo.  Chissà se la finirò mai..

venerdì 16 marzo 2012

Techno Madness


"Non ho capito la storia", "Qualche didascalia ce l'aggiungerei","Perché hai disegnato degli uomini-animali?" "E' troppo fico!" "La solita Eliseiata"


Ebbene sì: l'alter ego di IT il Clown,tale Eli6, ha partecipato all'ennesimo contest su Verticalismi.it!

Stavolta bisognava fumettare questo brano:



Se volete vedere che ne è uscito fuori,cliccate qui.

Saluti da IT il Clown e dagli Uomini Animali.

PS.:  in discoteca non impasticcatevi: nuoce gravemente alla salute.

giovedì 8 marzo 2012

Uomini che disegnano le donne

Perché se devi sbagliare un'anatomia almeno sbagliala bene!        E qui la genesi:
Un ringraziamento particolare alla Marvel Comics, a Black Widow e a Scarlett Johansson.