È
stata l’abitudine a fregarti.
Pensare
che tutto resti uguale.
Che
le cose e le persone non possano mai cambiare. Che restino
perennemente uguali a se stesse.
È
incredibile come non conosciamo bene nemmeno le cose che vediamo ogni
giorno. Come anche i luoghi che frequentiamo da sempre nascondano
piccoli misteri che , distratti come siamo, riusciamo sempre a non
notare.
Certo,
il mistero in questione è un paradosso enorme. Altro che piccolo.
Una di quelle cose che, a raccontarle, si vien presi per pazzi.
Difatti, mi son guardato bene dal raccontarlo. Anche se , devo
ammetterlo, è stato difficile. Per almeno tre giorni sono stato
preda di quell' entusiasmo infantile, tipico della scoperta, della
novità, che vorrebbe farti gridare al mondo la tua gioia.
Raccontarla a chiunque. O, almeno, a qualcuno a cui tieni.
Io
avrei voluto raccontarlo a te.
Ma
per raccontare qualcosa a qualcuno ci vuole complicità. Fiducia in
chi ti sta di fronte. La stessa che ti aveva portato a confessarmi,
quasi in lacrime, che tuo padre non se n’era andato dalla città
per cercare migliori fortune, ma perché inseguito dagli strozzini
che volevano fargli la pelle. O che ti aveva fatto raccontare di
quando, perduta nel tuo perduto amore, a 20 anni ti eri tagliata un
avambraccio per autolesionismo, dicendo poi a tua madre ed al medico
del pronto soccorso che t‘era scappata di mano la forbice. In
entrambi i casi ti aspettavi che io girassi le spalle, storcessi la
faccia, esprimessi disgusto. Io, invece, ti ho ascoltato. E sono
rimasto dov’ero.
Una
delle sere in cui tutto è cominciato ad andare male, una di quelle
sere in cui il tuo istinto sa qualcosa che tu non hai ancora
razionalmente capito, in cui la bocca dello stomaco stringe e non sai
perché, ho fatto la scoperta.
Per
la prima volta da quando ci conoscevamo abbiamo litigato, per
telefono. C’eravamo visti il giorno prima, ma tu, astutamente e
codardamente, avevi riportato alla luce una discussione solo a
distanza. Perché è facile tenere le distanze se esistono realmente.
Raramente
perdo il controllo, anche se sono adirato. Ma tu hai sempre avuto il
talento di farmelo perdere. Sotto tutti i punti di vista. Risultato,
grida furibonde al cellulare in mezzo alla strada, mentre rientravo.
Esasperazione, pianto, cellulare scaraventato per terra con violenza
nel vicolo, dedicato al bistrattato patriota risorgimentale, dietro
casa mia.
Sarà
stato il freddo gelido, la fortuna, l’indifferenza, o che mi ero
appartato nel punto più remoto della strada, nessuno s’è
affacciato a bestemmiare i miei antenati.
Il
cellulare ha compiuto due rimbalzi andando a finire in un angolo
completamente buio del vicolo, fra due lampioni vecchi e poco
potenti.
Ho
digrignato i denti, compresso nel petto un urlo animale, teso i
muscoli allo spasmo e riacquistato a fatica la calma. Mi sono
avvicinato al punto dell’impatto con l’intenzione di recuperare
ciò che residuava del telefono, sperando vivamente, viste le mie
scarse finanze, che funzionasse ancora.
Raccolsi
il pezzo di copertura del vano batteria, e mi avvicinai al buio
protendendo la mano per recuperare a tentoni il resto del cellulare.
Ma
mi bloccai.
A
mezz’aria, sudando improvvisamente freddo.
“Non
infilare il braccio nel buio!” mi disse l’istinto, lo stesso
della bocca dello stomaco.”non farlo…c’è qualcosa che non va…”
Razionalmente
pensai che, mentre avevo sentito distintamente il botto del primo
contatto del telefono con l’asfalto, non avevo sentito il rumore
del secondo rimbalzo. In una strada deserta, riverberatissima, in
inverno.
Ma
non era solo questo. Poteva esserci dell’immondizia non visibile. O
delle foglie secche. Ma qualcosa gridava “pericolo!” dentro di
me.
Presi
un ciottolo di cemento di medie dimensioni lì vicino. Lo buttai con
forza nel buio. Nulla. Cercai qualcosa che potevo tenere in mano ed
infilare nel buio. Trovai un ramo di mezzo metro. Lo infilai senza
incontrare resistenza. Lo lasciai andare. Nulla.
Nessun
rumore. Nessun rimbalzo. Eppure il muro a ridosso della macchia di
buio sembrava essere ad un metro circa da me. Ero terrorizzato ed
esaltato ad un tempo. Come chi ha un’intuizione ma ancora non è
sicuro che sia esatta. Andai a dormire completamente dimentico del
mio cellulare perduto.
La
mattina dopo ripassai da lì. Dovevo verificare. Vedere con la luce
del giorno. Con mio sommo stupore notai che la macchia di buio
persisteva. La conformazione dei muri, dei palazzi, degli alberi, di
tutto ciò che c’era intorno insomma, faceva si che lì non
battesse la luce nemmeno di giorno. M’ero portato dietro un paio di
oggetti da prova. Tirai un vecchio pallone. Nulla. Una vecchia
carabattola di metallo. Nulla. Rumori, pezzi, reazioni. Nulla di
nulla. Dietro di me la gente che abitava nei pressi passava. Le
macchine uscivano dai cortili. Ma nessuno sembrava accorgersi di
nulla.
La
sera stessa avrei voluto parlartene. Trasmetterti il mio entusiasmo,
quello che sembravi condividere, vista anche la rarità dei casi in
cui si presentava, quando ti parlavo un tempo.
Ma
eri palesemente altrove. Non solo con i pensieri. Eri già altrove.
Erano finite le recriminazioni, le discussioni, i sogni eccessivi e
sdolcinati, perché tu eri semplicemente già da un’altra parte.
E
me lo comunicavi. Ed io potevo solo accettarlo. Anzi tu sapevi che,
essendo io una brava persona l’avrei accettato, l’avrei capito.
Lo dicevi spesso, che sono una brava persona. Lo dicesti anche quella
sera.
Furono
giorni complicati. Accettare, dopo milioni di discorsi, che a me
sembravano prematuri a te la cosa più naturale del mondo, su una
vita insieme, che tu non ci fossi più. Ma anche realizzare che
dietro casa mia, da chissà quando, c’era il Buio. O il Nulla.
Ormai lo chiamavo così, impersonificandolo. Mi chiedevo cosa fosse,
e come mai nessuno se ne fosse accorto. Non mi sorprese più di tanto
scoprire, invece, una notte tarda, che molti dei desaparecido della
mala locale non erano seppelliti nelle montagne circostanti la città,
ma erano periodicamente scaricati nell’angolino buio a me noto. E
capì perché, in città, al sentire il termine sparizione senza
traccia anche il più feroce dei criminali locali sbiancava
lievemente.
Tutto
è successo l’altro ieri. Sei stata tu a cercarmi. Chiamarmi. Non
so se fosse nostalgia, rimorso di coscienza, insicurezza. Nemmeno tu
hai mai avuto chiaro cosa ti passasse nella testa. Hai sempre avuto
chiaro cosa non ti stava bene di me. Ma non è bastato che cercassi
di cambiare. Perché probabilmente non era quello che non andava.
Quindi,
hai deciso che dovevamo vederci. Per parlare ancora. Perché non
volevi che non facessi più parte della tua vita. Così hai detto.
Abbiamo passeggiato nel quartiere. Come facevamo di solito. Non mi
sono accorto che fossimo finiti lì. D’altronde c’eravamo seduti
sui quei muretti lì intorno altre volte. Stavolta rimanemmo in
piedi. E tu ti sei piazzata con le spalle al buio. Continuavi a
parlare. Hai parlato per tutto il tempo del passato. Del nostro
passato. Dell’amore, del sesso, delle cose assieme. Sembravi
nostalgica. Sembravi vicina. Tanto che mi ero quasi pentito dei
pensieri cattivi dei giorni precedenti. Degli agguati e della
punizione che ti avevo teso nella mia mente. Nei miei strazianti
momenti di solitudine. Fino a quando ti sei posizionata in quel
punto. Lì hai cambiato espressione. E tono. Lì sembravi un’altra
persona. Hai riattaccato la tiritera sulle cose cambiate, sul
capitolo finito, sull’affetto che non era più amore. E sulla mia
onestà, sulla mia bontà, sul mio essere anche sempre uguale a me
stesso. Li ho pensato a tutte le stronzate che mi avevi detto. Ed a
cui io avevo finito per credere, nonostante il mio cinismo. L’amore
eterno, il matrimonio fra i papaveri, i figli che ci somigliavano,
una vita migliore da un’altra parte. Lì devo avere cambiato
espressione io. Lì devi aver dubitato per un attimo. Delle cose che
avevi detto, delle cose che pensavi, delle cose che non cambiano.
Perché
appena ho fatto un passo in avanti, nonostante avessi ancora le mani
in tasca, hai fatto una faccia spaventata e sei arretrata di un
passo. Uno solo. Ho chiuso gli occhi per un attimo. Ho pensato, in
quell' attimo, che mi avrebbero fatto molte domande, che sarebbe stato
un periodo difficile. Ma che sarebbe passato.
Poi
li ho riaperti.
Nessun
rumore.
Nessun
segno.
Nulla.
Spiazzante! bravo!!
RispondiEliminagrazie...ben gentile....
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